Per sottolineare la pervasività dello sviluppo della tecnologia, l’Annual Report 2017 ha deciso di ospitare cinque storie esemplari di artigiani 4.0 ”made in Italy”, che hanno saputo leggere nella trasformazione digitale il futuro della propria attività. L’interpretazione artistica di queste storie è stata affidata a Emiliano Ponzi, noto illustratore italiano che collabora con importanti testate internazionali e che ha utilizzato una tecnologia innovativa per dipingere in realtà virtuale.
L’impatto del “digitale” non si limita solo al mondo delle organizzazioni, ma tocca anche aspetti della società e della vita dell’individuo: è per questo che abbiamo deciso di raccogliere le riflessioni di tre scrittori di livello internazionale – Tom McCarthy, Mohsin Hamid e Ted Chiang – riconosciuti per la loro capacità di leggere e interpretare la contemporaneità e i suoi grandi cambiamenti.
Dal 1872, anno della sua fondazione, Pirelli ha saputo trarre il massimo da ognuna delle rivoluzioni tecnologiche che si sono susseguite nel tempo, dall’elettricità all’automazione. Oggi, nell’era della trasformazione digitale, l’azienda sta mettendo a frutto le possibilità offerte dalle nuove tecnologie per diventare “data-driven“, un processo che si estende alle fabbriche, al prodotto e alla relazione con i clienti.
“CHI LAVORAVA ALLA MACCHINA SEGUENDO I PRODOTTI SEMIFINITI LUNGO LA LINEA DI PRODUZIONE, ORA ANALIZZA E INTERPRETA DATI, E ANZICHè REAGIRE AI PROBLEMI, AGISCE IN MANIERA PROATTIVA, PREVENENDO POTENZIALI ANOMALIE E CRITICITà”
A un anno dall’avvio del processo di trasformazione digitale di Pirelli, nelle sue fabbriche già si scrivevano codici di programmazione. Chi lavorava alla macchina seguendo i prodotti semifiniti lungo la linea di produzione, ora analizza e interpreta dati, e anziché reagire ai problemi, agisce in maniera proattiva, prevenendo potenziali anomalie e criticità. Questo è un esempio del ruolo fondamentale che il personale Pirelli sta avendo nella trasformazione digitale dell’azienda, che sta spingendo la tecnologia verso nuove direzioni, rendendo possibili realtà inedite. Di fatto, lo “smart manufacturing” è soltanto una delle componenti di quello che è l'intero progetto di digitalizzazione avviato da Pirelli nel novembre 2016, che include forecasting, marketing e customer relationship management a dimostrazione che quando un'azienda inizia il suo viaggio nel mondo del digitale l'impatto non può che essere ampio e fortemente innovativo. è stato il team di Milano a introdurre le prime novità e a visitare le altre sedi per condividerle con i colleghi, dimostrando come gli strumenti digitali significhino anche grandi vantaggi per la produzione. Il personale Pirelli ha accolto le novità con entusiasmo, dimostrandosi estremamente proattivo nel proporre funzionalità aggiuntive.
L'obiettivo è trovare le best practice che possono essere implementate in tutti gli impianti
Oggi negli stabilimenti ci sono team “smart manufacturing” che scrivono codici, personalizzano gli impianti e condividono informazioni e best practice tramite gruppi WhatsApp e Yammer. Queste nuove modalità di lavoro rappresentano una spinta non solo per le persone, ma anche per l’efficienza e la produttività della fabbrica, oltre a contribuire a ridurre gli scarti e gli interventi di manutenzione straordinaria, con un effetto domino su tutte le fabbriche, dall'Italia al Brasile fino alla Cina. Posizionati accanto a ogni macchina, oggi negli stabilimenti Pirelli ci sono schermi LCD che indicano i parametri rilevanti per ogni singolo processo, come per esempio i tempi di vulcanizzazione per un determinato pneumatico. Gli schermi informano l'operatore sullo stato del lavoro, offrendogli la possibilità di intervenire qualora il processo non stia proseguendo come pianificato. Gli operatori hanno visibilità anche sui dati provenienti dalle altre fabbriche del mondo. Possono consultare numeri e codici colore: il verde indica che tutto sta procedendo bene, il rosso evidenzia invece un problema. L'obiettivo finale è individuare e condividere le best practice per poterle poi implementare in ogni fabbrica e, in un secondo tempo, realizzare degli algoritmi in grado di prevedere quando e perché un impianto potrebbe avere un guasto e quando è il momento giusto per fare manutenzione.
L’entusiasmo con cui è stata accolta la tecnologia digitale nel settore manufacturing di Pirelli dimostra cosa è possibile ottenere mettendo le persone al centro della trasformazione digitale. È per questo che è stato studiato un programma di formazione e di sviluppo che coinvolge tutta l’azienda, finalizzato a sostenere il cambiamento verso la cultura digitale, che richiede una mentalità flessibile e un approccio “data-driven” orientato al cliente.
“IL LUNGO LAVORO DELL'AZIENDA PER QUANTO RIGUARDA L’ADOZIONE E LO SVILUPPO DELLE TECNOLOGIE DIGITALI, LA PASSIONE PER LA RICERCA E L’ESIGENZA DI OLTREPASSARE NUOVE FRONTIERE: QUESTI SONO I PRESUPPOSTI PER REALIZZARE UN APPROCCIO AL CLIENTE BASATO SUI DATI”
È indubbio che la trasformazione non si esaurisce con l’adozione delle nuove tecnologie – modello Industria 4.0 – ma richiede cambiamenti per tutta l’azienda, dal punto di vista culturale, organizzativo e manageriale: un processo che impiegherà tre anni per essere implementato e per il quale è stato fondamentale il forte endorsement da parte dei vertici dell’azienda, in particolare dall’Executive Vice Chairman e CEO Marco Tronchetti Provera. Il compito più impegnativo sarà quello di cambiare le modalità con le quali Pirelli si relaziona con il cliente. Il lungo lavoro dell'azienda per quanto riguarda l’adozione e lo sviluppo delle tecnologie digitali, la passione per la ricerca e l’esigenza di oltrepas- sare nuove frontiere: questi sono i presupposti per realizzare un approccio al cliente basato sui dati. Sono passati oltre vent’anni da quando gli scienziati e i ricercatori Pirelli hanno avuto l’ambizione di immaginare il pneumatico intelligente, sfruttando le informazioni che arrivavano dall’unica parte dell’automobile a diretto contatto con l’asfalto, il pneumatico appunto. I primi tre brevetti risalgono al 1999. Da allora, Pirelli ha collaborato con partner prestigiosi – tra cui la Fondazione Politecnico di Milano per la Smart Mobility e l Berkeley Wireless Research Centre – depositando oltre 300 brevetti.
A Los Angeles si possono installare pneumatici P Zero con Pirelli Connesso, controllare con l’app la pressione dei pneumatici dell’auto, la temperatura e l'usura. La stessa app consente di vedere quali sono le altre auto che sfruttano Pirelli Connesso. Grazie a questa tipologia di dati Pirelli e i suoi partner possono offrire ai consumatori una gamma di servizi efficaci sin dalla prima volta, sia per l'assistenza su strada che per tutti gli altri servizi relativi ai pneumatici. Le case automobilistiche sono interessate alle informazioni fornite dal pneumatico intelligente relative al carico verticale statico dell'automobile e al Tyre ID. Infatti, possono essere utilizzate per ottimizzare il sistema di controllo del telaio e migliorare così la sicurezza e la performance. Il carico statico verticale, ossia la forza verso il basso scaricata sul pneumatico, è particolarmente utile ai produttori di auto elettriche che, conoscendo il peso esatto dell'auto, riescono, tramite l'unità di controllo centrale del veicolo, a calcolare con maggiore esattezza la durata della batteria prima che sia necessario caricarla.
Il Tyre ID, che registra marca, dimensioni, carico e altre informazioni sul pneumatico, rende possibile l’offerta di nuovi servizi. Ad esempio, potrebbe essere l'automobile a ricordare al conducente che è giunto il momento del cambio gomme stagionale. In caso di foratura, controllando il Tyre ID tramite Cloud, un gommista potrebbe giungere direttamente sul posto, facendo risparmiare all’automobilista tempo e denaro.
“POTREBBE ESSERE L'AUTOMOBILE A RICORDARE AL CONDUCENTE CHE è GIUNTO IL MOMENTO DEL CAMBIO GOMME STAGIONALE”
Nel futuro un rivenditore di pneumatici sarà in grado di arrivare e cambiare le tue gomme mentre starai cenando con la tua famiglia, in modo che la mattina successiva l'auto sarà pronta e perfetta per partire. La relazione che ha Pirelli con i suoi partner – come i rivenditori di gomme – diventerà ancora più importante grazie ai dati che arriveranno direttamente dal consumatore finale e che, una volta processati, renderanno possibile una migliore offerta di prodotti e servizi. La possibilità di interpretare i dati provenienti dall’utilizzatore finale rende possibili prodotti e servizi migliori. Per questo la relazione fra Pirelli e i suoi partner – per esempio i dealer – diventa sempre più importante. Un esempio. I dati sull'usura aiutano a prevedere la domanda di pneumatici. Pirelli potrà quindi suggerire al rivenditore come ottimizzare lo stock per modello e relativi volumi. Il rivenditore, da parte sua, potrà sapere, tramite il portale dedicato ai dealer Pirelli, attualmente in fase di realizzazione, quando contattare direttamente il cliente per comunicargli che il livello di usura del battistrada è alto e che è necessario fissare un appuntamento per la sostituzione.
Le informazioni “data driven” stanno modificando il rapporto tra Pirelli e i suoi clienti. Non solo, le informazioni stanno cambiando la natura di Pirelli stessa. A oggi sono circa 300 le persone che lavorano alla Direzione Digital, quasi tutte a Milano.
“LE INFORMAZIONI “DATA DRIVEN” STANNO MODIFICANDO IL RAPPORTO TRA PIRELLI E I SUOI CLIENTI. NON SOLO, LE INFORMAZIONI STANNO ANCHE CAMBIANDO LA NATURA DI PIRELLI STESSA
Si tratta di persone con competenze nuove, ad esempio figure come gli sviluppatori Full-Stack e UX, cui è affidata la gestione del Data Science e degli algoritmi su cui si basa l'azienda, oltre che dei principali progetti digitali, fra cui le piattaforme dedicate ai clienti. Gli spazi in cui lavorano sono organizzati in modo da incoraggiare il lavoro di squadra e l’agile thinking. In sintesi, Pirelli è impegnata nello sviluppo di un approccio “data-driven” e di un processo decisionale trasparente, con team orizzontali che collaborano tra loro, una grande attenzione al cliente e l’obiettivo di creare valore. Questo impegno, unito alla profonda esperienza nella produzione di pneumatici e alla passione che alimenta la Ricerca e Sviluppo verso la conquista di nuove frontiere nella mobilità, é la promessa, per Pirelli, di un futuro digitale potente.
Mohsin Hamid scrive regolarmente per il New York Times, il Guardian e il New York Review of Books. Nel 2013 è stato inserito tra i 100 Leading Global Thinkers dalla rivista Foreign Policy e nel 2017 era tra i finalisti del Man Booker Prize. Ha scritto Il fondamentalista riluttante, Come diventare ricchi sfondati nell’Asia emergente e Nero Pakistan e la raccolta di saggi Le civiltà del disagio. Nato e cresciuto prevalentemente a Lahore, oggi si divide tra Lahore, New York e Londra.
Quando parliamo di tecnologia, troppo spesso usiamo il linguaggio della tecnologia. Diciamo: ho un cellulare tipo X che utilizza un sistema operativo tipo Y su cui gira un’applicazione tipo Z. Ma questo ci fa perdere il contatto col significato reale, ci impedisce di comunicare ciò che è umano. Dobbiamo invece, quando parliamo di tecnologia, ricordare che siamo esseri umani. Dobbiamo usare un linguaggio umano, il linguaggio dei nostri sentimenti, dei nostri sensi. Perché noi umani siamo creature emotive, creature fisiche. Potremmo allora dire: ho in tasca un oggetto rettangolare di metallo e vetro che reclama di continuo la mia attenzione come una siringa reclama l’attenzione di un tossico, un oggetto che quando lo perdo, quando non riesco a trovarlo e a guardarlo e a parlargli, è come se avessi smarrito una parte di me stesso. Parlare di tecnologia in un linguaggio umano come questo ci permette di tenere presente che la tecnologia non è separata da ciò che è umano. Anzi, la tecnologia nasce da ciò che ci rende umani: la tecnologia nasce dai nostri desideri. L’esistenza degli aeroplani non è una cosa separata dall’esistenza degli esseri umani. Gli aeroplani esistono perché noi esseri umani desideravamo volare. Al pari del desiderio, la tecnologia di per sé non è né buona né cattiva. Non porta inesorabilmente né all’utopia né alla distopia. L’esito del progresso tecnologico per l’umanità dipende dalla relazione fra gli esseri umani e la tecnologia: se è solo la tecnologia ad agire su di noi o se anche noi siamo in grado di agire sulla tecnologia. La questione che ci troviamo ad affrontare, in questo momento di cambiamento tecnologico esponenzial- mente accelerato, è come creare un mondo dove gli esseri umani si sentano a proprio agio col progresso della tecnologia. Come ripristinare una sensazione di fiducia, la sensazione di non essere lettori di un futuro scritto da altri ma autori del nostro futuro. Un passo avanti sarebbe una radicale democratizzazione della tecnologia. La tecnologia nasce dalla cul- tura umana che tutti condividiamo, dal capitale culturale umano accumulato nel corso di tutta la storia, dal linguaggio e dalla matematica e dalla fisica e dallo zero e dall’uno, da qualcosa che appartiene a tutti. La proprietà intellettuale, come gli oceani, può essere territorio di pesca per gli individui ma deve essere considerata un bene comune. In questa visione democratica della tecnologia, ogni essere umano dovrebbe poter usufruire dei benefici derivanti dalla tecnologia. Nel mondo a venire, man mano che apprenderanno, le macchine renderanno possibili grandi lussi, ed eli- mineranno molti posti di lavoro. Se questi lussi saranno monopolizzati da poche persone, e il peso della perdita di quei posti di lavoro ricadrà sulle spalle di miliardi di altre persone, ci ritroveremo in effetti con una distopia. Ma se quei lussi verranno condivisi, e se tutti avranno voce in capitolo nel determinare la direzione della tecnologia, allora forse comincerà a essere pensabile qualcosa che suona come un’utopia: un mondo di abbondanza, dove ognuno potrà perseguire quel che più gli sta a cuore. Un mondo in cui ci saranno cibo e sicurezza ed energia e libertà d’azione per tutti. Un mondo che per gli esseri umani sarà migliore di tutti quelli che lo hanno preceduto. Da molto tempo gli esseri umani desiderano vivere in un paradiso. Se decideremo di spalancare le porte di quel paradiso, la tecnologia potrebbe renderlo possibile; se invece cercheremo di limitare l’accesso a pochi eletti, finiremo per generare un inferno.
Tom McCarthy vive a Londra, dove è nato nel 1969. è conosciuto nel mondo dell’arte per la sua partecipazione al gruppo avanguardista International Necronautical Society (INS). Tra i suoi romanzi ricordiamo: Déjà-vu, Uomini nello spazio, Tintin e il segreto della letteratura e C (Bompiani, 2013), finalista al Man Booker Prize 2010 e al Walter Scott Prize.
Nel 1895, in un saggio intitolato “Il libro, strumento spirituale” il poeta simbolista francese Stephane Mallarmé lanciò per la prima volta la sua provocazione più fa- mosa: “In fondo, il mondo è fatto per finire in un bel libro”, scrisse. Mallarmé non pensava semplicemente a un libro come un altro, ma (come avrebbe spiegato in una lettera al suo amico Verlaine) al Libro per eccellenza, “convinto che in fondo non ve ne sia che uno solo... architettonico e premeditato... la spiegazione orfica della Terra”. Per tutto il resto della vita si dedicò a questo progetto: dato che il libro nella sua forma attuale non era all’altezza del compito, si accinse a creare un nuovo super-libro ramificato e transmediale che avrebbe contenuto in sé il teatro, la danza e la musica, persino il rito, e avrebbe impiegato tutte quelle forme riconfigurandole in un “sistema di rapporti” totalizzante, che lui avrebbe definito semplicemente le Livre (con la L maiuscola). Trent’anni dopo Bronislaw Malinowski, il padre dell’antropologia moderna, espose una simile ambizione per il campo dell’etnografia. Il suo Primo Comandamento per tutti gli aspiranti antropologi era semplicemente “Annotatevi tutto”. Dato che ogni particolare, dai dettagli di una cerimonia del tè alla forma della fibbia di una cintura cerimoniale, avrebbe potuto rivelarsi cruciale per svelare la logica di una determinata tribù, rifletteva Malinowski, bisognava annotare tutto, analizzare, mettere in correlazione ciascun particolare con tutti gli altri, finché, voilà!, tutto il tessuto sociale non svelava il segreto della sua trama. Facciamo un salto di novant’anni, e si potrebbe avere l’impressione che le aspirazioni di entrambi gli autori si siano realizzate. Il “sistema di rapporti” di Mallarmé che contiene tutti gli oggetti e i fenomeni si incarna nel World Wide Web. Anche il Comandamento di Malinowski è stato osservato: non tra le tribù remote, ma tra i cittadini dei paesi ultra sviluppati. Ora è davvero tutto annotato. Non c’è un momento della nostra vita che non venga documentato: passeggiando lungo un tratto di strada veniamo filmati da telecamere, tracciati con il GPS, monitorati dai telefoni che teniamo in tasca. Ogni sito internet che visitiamo, ogni tasto che tocchiamo viene archiviato. Ora le reti di affinità sono mappate da software che creano tabulati e rimandi tra quello che compriamo e i nostri conoscenti, e quello che loro comprano, o che gli piace, e con gli altri oggetti che piacciono o vengono comprati da altre persone che non conosciamo, ma che hanno modelli di gusto e di acquisto in comune con noi. E in tutto questo dove si colloca l’antropologo, o lo scrittore? O il cittadino, se è per questo? Forse queste domande in realtà coincidono. Quello che mi affascina, in quanto scrittore, nell’ascesa della cultura digitale e dei regimi di sorveglianza estrema che implica, non è tanto il vecchio adagio che tutta la letteratura è politica, ma piuttosto il contrario; è la politica a diventare una questione letteraria. Letteraria nel senso che la vita pubblica – e privata – si ritrova governata dalla propria trascrizione: quando tutto viene annotato in un registro di qualche tipo, allora l’esperienza in quanto tale, e con essa il problema del libero agente (siamo padroni di noi stessi? O tutti i nostri gesti e le nostre decisioni sono governati e decisi dagli algoritmi?), si riducono a istanze e atti di scrittura. Kafka aveva previsto tutto questo. Nel suo racconto “Nella colonia penale“ immaginò un gigantesco macchinario a cui i prigionieri vengono legati, e che incide loro nella carne le parole della legge, “Sii giusto”, in iterazioni di un’autointrospettività grottesca. Secondo il filosofo Michel de Certeau viviamo tutti dentro quel macchinario: nel capitalismo, sostiene, tutti i corpi “vengono quindi trasformati in testi, in aderenza al desiderio che ha l’Occidente di leggere i propri prodotti”. Se volete vedere l’ultima apparizione del macchinario, guardate la famosa foto della sede NSA nel Maryland scattata da Trevor Paglen. è una colossale scatola nera, che contiene registrazioni di... praticamente tutto. Questo è il Libro della modernità liquida: ma chi è in grado di leggerlo? Nemmeno l’NSA è capace di analizzare e vagliare e mettere in correlazione i miliardi di dati contenuti tra le copertine del suo libro nero, o sa come interpretarlo. Forse è qui che la questione comincia a cambiare: forse non è più la scrittura a stare al centro del problema, ma è la lettura. Un atto che, sia per il cittadino che per l’artista, non serve più a trovare nuove forme di espressione: ma a trovare nuovi modi di mappare, navigare, leggere la nostra via d’uscita dal macchinario di scrittura, o almeno il percorso al suo interno verso l’uscita.
© 2018 by Tom McCarthy
Ted Chiang è uno dei più apprezzati scrittori di fantascienza viventi. Con i suoi racconti e romanzi brevi – pubblicati con grande parsimonia a partire dal 1990 – ha vinto in più di un’occasione i premi Nebula e Hugo. Laureato in informatica, vive vicino a Seattle. Oltre a Storie della tua vita, in Italia è stato pubblicato il romanzo breve Il ciclo di vita degli oggetti software (Delos Books, 2011).
Parlando di computer revolution, la gente la paragona spesso al modo in cui le automobili mandarono in pensione le carrozze o le fruste dei cocchieri. Io penso però che per comprendere a fondo quanto i computer siano in grado di cambiare la nostra vita, dovremmo rifarci a quella che è stata la prima, vera tecnologia dell’informazione, ovvero la parola scritta. La scrittura ci è ormai talmente familiare che la maggior parte delle persone non la con- sidera nemmeno più una tecnologia, anche se in effetti di questo si tratta. La scrittura è completamente diversa dal linguaggio orale, che è parte del nostro patrimonio biologico. A meno che di proposito non lo si privi di stimoli, un bambino imparerà automaticamente a parlare (o a esprimersi con il linguaggio dei segni, nel caso in cui sia sordo). La scrittura è stata invece inventata, e non è nemmeno stato facile. Per decine di migliaia d’anni gli esseri umani hanno dipinto le pareti delle loro caverne e fabbricato collane, prima che a qualcuno venisse in mente di rappresentare il linguaggio orale per mezzo di segni. Ancora oggi, del resto, esistono migliaia di lingue prive di una forma scritta. Come altre tecnologie, anche la scrittura è migliorata nel corso del tempo. QUESTAFRASEèDIFFICIL- EDALEGGEREMAAUNCERTOPUNTODELLASTORIAUMANATUTTALASCRITTURAAVEVAQUE- STOASPETTO. Leggendo una frase come questa, verrà probabilmente spontaneo scandirla muovendo le labbra; le prime forme di scrittura erano strettamente legate al linguaggio orale. Nel corso dei secoli sono stati inseriti degli spazi fra una parola e l’altra, le lettere maiuscole sono state differenziate da quelle minu- scole, sono stati aggiunti i segni d’interpunzione per distinguere frasi e proposizioni. Simili perfezionamenti hanno incrementato l’efficacia della scrittura, un po’ come i progressi compiuti dalla metallurgia hanno reso i coltelli più affilati e robusti. Se vi è capitato di tenere un discorso, vi sarete quasi certamente annotati prima qualcosa, dei semplici appunti, magari, anche se è più probabile che vi siate scritti tutto quanto, parola per parola. Perché farlo, però, visto che alla fine quel contenuto dovrà essere espresso a voce? Ma perché la scrittura è ormai ben più di un sistema per trascrivere suoni: ci aiuta a organizzare i pensieri, a capire quello che vogliamo dire davvero. La scrittura è una tecnologia cognitiva, uno strumento per pensare. I vantaggi offerti dai computer sono enormi, ma l’impatto della tecnologia digitale sul nostro modo di pensare sarà perfino più profondo. Immagino che in futuro, per preparare un discorso, sfrutteremo un software in grado di aiutarci nella formulazione stessa delle idee. Non mi riferisco a Microsoft Word o a Powerpoint, che si limitano ad emulare vecchie modalità comunicative e in un certo senso corrispondono a una scrittura fatta solo di maiuscole, senza spazi fra una parola e l’altra. Saranno soppiantati da qualcosa di più flessibile e dinamico, e come sarà esattamente questo software non lo so, ma renderà più semplice esprimere certe idee: quelle che oggi, quando vogliamo rappresentarle con una serie di parole allineate in un rettangolo, ci danno del filo da torcere. Può darsi che i vantaggi di tale software non saranno evidenti fin da subito, ma neanche quelli della scrittura erano stati così ovvi, all’inizio. Per quanto ai tempi l’alfabeto greco fosse impiegato già da secoli, Socrate diffidò sempre della parola scritta, che a suo parere trasmetteva una parvenza di sapienza, ma non la sapienza vera e propria. Socrate aveva anche rilevato che se delle domande venivano rivolte a una persona istruita, chi le aveva fatte poteva ottenere delle vere risposte, mentre se si cercava d’interrogare un testo scritto, questo avrebbe continuato a dire una cosa sola. Oggi queste critiche vengono fatte ai computer, e Socrate in fondo criticava la scrittura per lo stesso motivo: una nuova modalità cognitiva non può essere pienamente apprezzata, finché non siamo in grado di sfruttarla senza sforzi. Siamo portati a pensare alla tecnologia come a qualcosa di freddo, di duro, qualcosa che non lega bene con il nostro corpo e più in generale con noi. Quando qualcuno afferma che la tecnologia digitale diventerà parte integrante di noi, quindi, è facile immaginarci con dei cavi collegati al cervello, ed è un’idea che ci ripugna. Se però pensiamo all’analogia con la parola scritta, lo stesso concetto smetterà di atterrirci e al contrario saprà conquistarci. La tecnologia digitale diventerà parte di noi attraverso la trasformazione del linguaggio che utilizziamo per pensare. E lungi dall’impoverirci, amplierà il raggio delle nostre possibilità, ci suggerirà nuovi modi di essere intelligenti, nuovi modi di essere creativi, nuovi modi di essere umani.
Il sogno è tenere in vita un’arte manuale tramandata di padre in figlio. La tecnologia è ciò che ha permesso di realizzarlo. Veronica Druetta e suo fratello Gabriele sono tappezzieri da tre generazioni: il nonno Matteo fondò l’attività nel 1953, il padre Antonello guida ancora la società, che ha sede a Moretta, tra Saluzzo e Alba, «il triangolo piemontese dello slow food», come lo chiamano. Nel 2012 decidono di dedicarsi a questo mestiere pure loro. Veronica era poco più di una ragazzina (oggi ha trent’anni) e la sua strada professionale sembrava averla portata da tutt’altra parte: dopo avere studiato lingue, aveva iniziato a lavorare come interprete, e per un certo periodo si era trasferita all’estero. Il fratello maggiore invece ha studiato architettura. Poi scatta qualcosa, i due scelgono questo mestiere per portarlo nel nuovo millennio. Si armano di uno scanner 3D e di un software di progettazione parametrica. Uno dei problemi della tappezzeria tradizionale è che per rivestire un mobile occorre prendere misure e fare delle prove, un lavoro preliminare che prende tempo ed è necessario anche solo per fare un preventivo: il risultato è che la professione sta diventando sempre meno sostenibile. Utilizzando un semplice scanner tridimensionale, però, Veronica e Gabriele possono ottenere un modello, con tutte le misure, in pochi secondi.
Nel 2016 la loro azienda è stata selezionata per Botteghe Digitali, un progetto di formazione e accelera- zione per l’artigianato italiano d’eccellenza. Il termine tappezziere è riduttivo per raccontare quello che fanno: non soltanto rivestire mobili, ma anche progettarli, insieme a prestigiosi studi di architettura; poi ci sono le collaborazioni con le gallerie d’arte. Grazie all’algoritmo del software, sono in grado di mo- dificare i loro progetti, dove un piccolo aggiustamento richiederebbe calcoli complessi, in tempi rapidi. Le ore e l’energia risparmiate sono quello che permette a questi due ragazzi di prendere «un sapere in via d’estinzione», come lo definisce Gabriele, e renderlo compatibile con un mercato globalizzato. Le conoscenze linguistiche di Veronica, e le sue esperienze all’estero, consentono di interagire direttamen- te con clienti e fornitori internazionali. Innovazione e tradizione convivono anche nei materiali: i fratelli Druetta sanno lavorare con i più classici velluti e con le imbottiture di crine di cavallo, e intanto sperimentano con tessuti stampati in 3D, con gel polimerici e con texture inedite. Amano le contaminazioni, servendosi di tessuti pensati per la moda, per l’abbigliamento tecnico o per le applicazioni mediche. Vanno a caccia di novità, racconta Veronica, con uno spirito antico: «Andiamo alle fiere, bussiamo alle porte, cerchiamo il contatto diretto con chi crea cose interessanti». Non amano la retorica del progresso fine a se stesso. La digitalizzazione ha rivoluzionato la fase di progettazione, ma la produzione si fa ancora a mano. Guardano però con grande interesse alle applicazioni della realtà aumentata, come per esempio Tilt Brush di Google, il pennello virtuale che permette di disegnare in 3D. La tecnologia è soltanto un mezzo: il fine è fare le cose bene, potere inseguire la bellezza.
Avviati verso la carriera accademica, Niccolò Calandri (ingegnere) e Riccardo Balzaretti (biologo), hanno resistito alle sirene della “fuga dei cervelli” per rischiare, dedicarsi a una idea tutta loro e applicarla nel loro luogo d’elezione, la campagna italiana. Così si sono inventati un nuovo singolare mestiere: una figura tra l’informatico e il veterinario che si occupa di prevenire le malattie negli alveari. I due sono stati colpiti, a quanto pare, dal famoso ammonimento di Einstein: «Se l’apescomparisse dalla terra, all’umanità resterebbero quattro anni di vita».Sin dai tempi degli antichi romani, l’alveare fu elevato a modello di società perfetta, e già Plinio il Vecchio lodava l’organizzazione di quella ronzante fabbrica perfetta. Solo nel diciassettesimo secolo, invece, si scoprì che il “boss” dell’alveare era l’ape regina, e questo portò nuova fortuna alle api, che divennero simbolo non solo di operosità, ma anche di società matriarcale. La società post-industriale ha smarrito la sua fascinazione per l’ape e per tutto ciò che essa rappresentava. Come conseguenza, il mestiere dell’apicoltore è stato svalutato, e il fatto che il miele fosse considerato un prodotto di lusso non ha migliorato le cose. Negli ultimi vent’anni, poi, la salute delle api è degenerata a causa delle malattie provocate dall’uso intensivo di pesticidi, e oggi la drammatica condizione della sua specie sta riportando l’ape a rivestire un nuovo simbolo: non tanto di laboriosa cittadina di una comunità ideale, quanto di guardiana del mondo, il cui lavoro è orientato non solo alla produzione, ma soprattutto alla salvaguardia dell’ambiente.
A lungo, gli apicoltori hanno tamponato le perdite con gli antibiotici, che fortunatamente oggi in Europa sono illegali. In mancanza di antibiotici, la prevenzione è l’unico modo per salvare le api. E questo è il campo di applicazione di 3Bee. Il dispositivo elettronico IOT prodotto dalla startup è un sistema di ottimizzazione del benessere dell’ape. è come avere qualcuno che osserva i tuoi alveari giorno e notte, monitorando parametri quali la temperatura, l’umidità e la vibrazione dell’alveare, che è un po’ come la tosse umana: se le api non stanno bene, infatti, il loro battito d’ali cambia. Attraverso la piattaforma Hive-Tech, l’apicoltore è aggiornato attimo per attimo su eventuali anomalie che possono turbare la quiete dentro l’alveare. 3Bee ha cominciato a diffondere la sua tecnologia in via sperimentale qualche mese prima del lancio ufficiale sul mercato avvenuto a marzo 2018. Ben 500 dispositivi sono stati già venduti in tutta Italia nei primi giorni di attività, che coincidono anche con l’inizio della stagione dell’apicoltura. Ora, la startup prevede un ritmo di distribuzione di circa 100 o 200 dispositivi al mese, fino a ottobre, quando c’è un nuovo picco di richieste. L’Italia è il principale campo d’azione dei due giovani soci, che abbandonando la carriera scientifica hanno operato anche una scelta sentimentale legata al proprio Paese d’origine. Tuttavia, esportano anche in Moldavia, Romania, Russia, Germania e Sudamerica: il tutto con uno staff totale di soli 4 elementi. Vengono in mente i versi che il poeta Franco Marcoaldi dedicava a un fanciullo apicoltore: ciascun alveare è la prova palmare della netta supremazia degli insetti.
Il polistirolo espanso viene inizialmente tagliato a mano, poi viene incollato insieme a due elementi laterali in sughero. Dopo una giornata di posa in officina, quando la colla ha fatto il suo dovere, un tecnico colloca la massa ancora da scolpire all'interno della shaping machine. La visione inizia a prendere forma, passando da una rappresentazione matematica di un software 3D a una bozza fisica del prodotto quasi finito. Una fase di scrub e resinatura è ilpassaggio finale, affidato di nuovo a mani umane.Così nascono le tavole da surf di Alterego: «Lavorando da architetto, sono sempre stato un po' più interessato ai progetti dalla forte componente fisica. Amo la fisicità dei materiali, il modo in cui cambiano e agiscono insieme per dare forma a ciò che avevo immaginato», dice Luigi Salustri, co- fondatore di Alterego Surfboards. Cinquantottenne dall'aspetto giovanile, con la barba scura un po’ incolta e l’abbronzatura sana da surfista, Salustri è nato e cresciuto a Roma, dove si è occupato di architettura, scenografia e design di allestimenti. All'inizio del 2017 si trasferisce ad Alghero per aprire l’officina di Alterego. «Sin da quando ho deciso di fondare l'azienda, l'idea era quella di realizzare tavole da surf in modo ecologico, con materiali riciclati e riciclabili, lavorando nel modo più ecosostenibile possibile».
La storia di Alterego è quella tipica di una passione da garage che si trasforma in un’opportunità imprenditoriale. Salustri ha cominciato a plasmare le tavole da ragazzo, per passione, ma non credeva che ne avrebbe ricavato chissà cosa. Era un surfista che voleva sporcarsi le mani e creare gli strumenti per il suo hobby di sempre. Poi gli amici cominciarono a chiedergli informazioni su quelle bellissime tavole da surf: potevano comprarle? Il seme era stato piantato. L'impulso decisivo è arrivato grazie a Smart&Start Italia, un’iniziativa statale che offre sovvenzioni e finanziamenti a tasso zero a nuove imprese che uniscono una componente digitale, un'idea innovativa e l’attenzione all’ecosostenibilità. Il rispetto dell’ambiente per Alterego è centrale, tanto da determinare sia la scelta dei materiali, sia i processi di lavorazione. L'uso del sughero come elemento strutturale, ad esempio, non è pratica comune nel settore. Salustri l’ha scelto sia per il tocco estetico naturale che dà alle tavole, sia perché è un materiale tipicamente eco-friendly rispetto a opzioni più tradizionali come la fibra di carbonio o l'aramide (vulgo kevlar). C'è poi il polistirolo, un elemento chiave la cui produzione è decisamente poco ecologica. Per ovviare al problema Alterego si approvvigiona solo da un impianto di riciclaggio a 40km dall’officina. Gli scarti della lavorazione con la shaping machine (un tornio CNC fatto su misura, progettato e assemblato da un ingegnere italiano, con acciaio di Terni, schede elettroniche di fabbricazione tedesca e chip giapponesi di alta precisione) rientrano a loro volta nel circuito di riciclaggio. Anche la bioresina necessaria per rifinire le tavole, prodotta solo a partire da oli vegetali, è una delle soluzioni più ecologiche disponibili oggi.
Un tempo comprarsi un abito su misura era un lusso possibile solo per aristocratici, grandi ricchi e celebrità del mondo dello spettacolo. Poi negli anni è diventata una cosa a portata di mano di sempre più persone. Ma mai finora si sarebbe potuto immaginare di potersi disegnare da sé un abito, e poi vederselo realizzato e portato a casa. Questo è quello che permette di realizzare Differenthood, la startup di Riccardo Bigio fondata tre anni fa a Milano. «Mio padre ha sempre lavorato nel settore della seta a Como, mentre da parte di mia madre abbiamo una sartoria che è stata fondata nel 1856», dice Riccardo, ingegnere, che fino a pochi anni fa faceva il consulente strategico, pur coltivando il sogno di mettersi in proprio, in un settore forse obbligato visto il pedigree di famiglia. Che rimanda a un secolo, l’Ottocento, in cui i gentiluomini (e le gentildonne) si recavano da una sartoria per realizzare modelli esclusivi. Spesso i sarti e le sarte copiavano modelli di grandi stilisti o sartorie più celebri portando anche in provincia lo stile delle capitali. Adesso però ognuno può essere insieme il sarto e il designer dise stesso. Non servono abilità particolari: il cliente sceglie infatti una “base”: cappotti, abiti, giacche, trench, camicie. Poi si personalizza la forma di base scegliendo le varianti che più piacciono: lunghezza, colli, tasche, polsini. A quel punto si sceglie il tessuto e si aggiungono bottoni, fibbie, inserti e altri accessori. E magicamente il capo è pronto, come se fosse uscito dalle abili mani di un sarto d’altri tempi. Ma con le comodità di oggi. Differenthood sta lavorando a un’ulteriore facilitazione della scelta. «Abbiamo pensato a un box: quando ti iscrivi ti mandiamo a casa una serie di capi di diverse taglie, con un campionario di tessuti. Li tieni una settimana-dieci giorni, e quando hai scelto, puoi ordinare online. Non è niente di fantascientifico ma non lo fa nessuno», dice Riccardo.
Un’altra possibilità che ai clienti dei sarti ottocenteschi era preclusa è quella della condivisione: con un catalogo di cinquemila tessuti che coniugati secondo i vari disegni permettono fino a un miliardo di combinazioni diverse, ogni capo è assolutamente unico ma può essere condiviso con altri clienti. Guadagnando: «Se qualcuno vuole il tuo stesso modello, proprio come l’hai disegnato tu, il cliente- stilista prende una percentuale». «è giusto che gli sia corrisposto un copyright», dice Riccardo. La sartoria condivisa di Differenthood realizza un altro sogno, almeno dal punto di vista della gestione aziendale: quello di non avere scorte di magazzino. Anche i prezzi, grazie all’assenza di intermediari, sono in media del 40% più economici rispetto alla moda tradizionale. Una volta creato il proprio prodotto unico, si impiega in genere 3-4 settimane per produrlo. In particolare, le camicie vengono fatte fare a Bergamo, gli abiti a Roma. «è sempre stato il mio sogno fare qualcosa di mio partendo da zero», dice Riccardo. «Ci lavoro da parecchio tempo, di notte quando avevo il vecchio lavoro, poi ho preso sei mesi di aspettativa, alla fine mi sono licenziato per aprire Differenthood». Adesso il suo sogno è diventato possibile: tecnologia e coraggio gli permettono di fare un lavoro antico ma con un tocco completamente contemporaneo.
L'innovazione, ovvero la tecnologia blockchain, unita all'elemento più ancestrale che ci sia, la terra. è il connubio che due giovani imprenditori italiani hanno messo al centro della loro startup. Un'idea che porta l'agricoltura a uno stadio 4.0, creando una connessione diretta tra coltivatori e consumatori. Si chiama Demeter ed è una piattaforma online che permette di affittare in qualsiasi parte del mondo una porzione di terreno, un 'micro-campo' coltivato dall'agricoltore locale su indicazioni del cliente, il quale poi è libero di scegliere se ritirare direttamente i prodotti o farseli spedire. Il progetto è nato nel 2016 da due amici trentenni, Marco Mettimano e Luigi Tonti, oggi rispettivamente Ceo e Platform advisor di Demeter. Mettimano dal 2013 vive in Cina, dove si è occupato di investimenti nel settore dell'automotive e del fotovoltaico. Tonti invece due anni fa ha preso in mano l'azienda agricola di famiglia in Puglia e così si è reso conto di come la maggior parte dei ricavi fosse assorbito dal sistema di intermediazione che orbita intorno a questo settore. «Da qui è nata l'idea della piattaforma che, tagliando gli intermediari, assicurava un guadagno maggiore per gli agricoltori, un prezzo minore per gli acquirenti, ma al contempo un rapporto di fiducia», racconta Mettimano. Un sogno con radici molto reali, a cui mancava però ancora un passaggio.
I produttori, anche in buona fede, avrebbero potuto apportare modifiche alla produzione senza farlo sapere al consumatore, o peggio falsificare i prodotti. «Bisognava trovare un sistema di garanzia - ammette Mettimano - è a quel punto che entra in scena la blockchain ». È la stessa tecnologia su cui si basano le criptovalute come il Bitcoin e sta avendo un forte sviluppo nel settore agroalimentare. Funziona come un database che immagazzina le informazioni online su una sorta di libro contabile (ledger), impedendo qualsiasi tipo di manipolazione, così le attività del produttore sul proprio micro-campo sono tracciate in ogni passaggio. La startup ha lanciato una sua criptovaluta chiamata Demeter Token, grazie alla quale sarà possibile acquistare tutti i servizi disponibili sulla piattaforma. «Uno strumento indispensabile sia per la supply chain sia per l'auto?nanziamento», assicura Tonti. Ad aggiungere competenze nel settore dell'alimentazione healthy ci ha pensato Arianna Vulpiani, Business development manager della startup. Vulpiani nel 2017 ha fondato il progetto BioFarm Orto, una sorta di sharing dell'orto che permette ai consumatori di affittare a distanza e poi raccogliere direttamente gli ortaggi coltivati da piccole aziende agricole. Anche da qui è partita l'idea del micro-campo poi sviluppato dal portale di Demeter grazie alla blockchain. In attesa di aprire le registrazioni, sono già arrivate richieste di adesione da 23 Paesi, dall'Asia al Sudamerica. E in Italia ci sono già agricoltori, che rappresentano nel complesso un migliaio di ettari, pronti a utilizzare la piattaforma. Grazie alla tecnologia, avanza così una piccola rivoluzione nel modo di pensare, consumare e vivere quotidianamente il cibo.
Emiliano Ponzi è uno dei più importanti illustratori contemporanei. Ha trascorso tutti i pomeriggi della sua infanzia a disegnare seduto a un tavolo, quando ancora con i piedi non toccava il pavimento. Oggi il tavolo da disegno di Emiliano Ponzi è a Milano, in un grande studio che condi- vide con altri creativi. Per qualche mese all’anno si trasferisce a New York, dove ha già ricevuto diversi riconoscimenti, tra cui tre medaglie d’oro della Society of Illustrators, oltre a quelle d’argento e al merito. Sempre nella Grande Mela è stato l’unico italiano ad aggiudicarsi il Gold Cube dell’Art Directors Club. è improbabile non aver tenuto tra le mani un’opera di Emiliano Ponzi: sono sulle coper- tine delle più prestigiose pubblicazioni italiane e internazionali. The New York Times, New Yorker, Le Monde, La Repubblica, Esquire, Vogue, per citarne alcune. Tra i suoi clienti figurano anche istituzioni come la Triennale di Milano e il MoMA, per cui ha recentemente firmato il picture book della mappa della metropolitana di New York. Una rigorosa pratica quotidiana lo ha portato a crearsi uno stile inconfondibile, fatto di tratti essenziali e toni pastello di hopperiana memoria. Sono metafore sintetiche ed eleganti, che si tratti delle immagini di copertina per una collana di libri di Bukowski, dei murales alla fermata della metropolitana di Milano tra i grattacieli di Isozaki, Libeskind e Zaha Hadid, o dell’ultima copertina di World, il magazine di Pirelli. Se si chiede a Emiliano, però, la sua illustrazione migliore è sempre quella che disegnerà domani.